Anno: 2010
Misure: 12x6x3mt
La fabbrica degli ossimori
Nel dibattito sull’arte contemporanea il mosaico è un illustre assente da diversi decenni. Diciamo pure da quando ottant’anni or sono Mario Sironi aveva rilanciato la grande decorazione parietale capace di riproporre, come un tempo, narrazioni sociali, di interesse collettivo, ritenendo ormai storicamente superata la pittura da cavalletto di destinazione ‘borghese’. Sappiamo com’è finita quell’utopia sironiana sotto l’ala del fascismo, per quanto il lavoro dell’artista fosse profondamente minato da un sentimento tragico della vita in evidente quanto forse inconsapevole contraddizione con l’altisonante retorica del regime. Ma vale anche la pena di ricordare gli sforzi teorici di Severini di ridare legittimità, fisionomia e moderna ragion d’essere al mosaico proprio in funzione della sua identità storica, alla luce di una contemporaneità per buona parte incanalata verso sbocchi quanto più lontani dall’alveo della tradizione. Lo stesso Severini, com’è ben noto tutt’altro che estraneo ai moderni destini della pittura, ed anzi sul vivo delle sue più conclamate trasformazioni fin dalla sua stagione futurista, aveva insistito perfino sul recupero di una manualità artigianale e un’identità di ideatore ed esecutore da rimandare alle stagioni prerinascimentali. Il secondo dopoguerra, certo, ha per buona parte spazzato via le illusioni, pur diverse, di Sironi e Severini, ed è passata molta acqua sotto i ponti- fosse talora anche piuttosto torbida, non importa poi molto- prima che i famosi -o famigerati, a piacere- ‘Anniottanta’, sdoganando stilemi, linguaggi, gusti, artisti di diversa natura e collocazione, autorizzassero certi nuovi protagonisti di grido a giocare anche la carta di tecniche tradizionali, quasi desuete per l’ufficialità cosmopolita, come appunto il mosaico. Se non proprio direttamente, per interposta persona: ovvero per il tramite del ‘pictor musivarius’, l’esecutore mosaicista d’antica memoria.
Resta che l’identità dell’ideatore e dell’esecutore, come invocava Severini, anziché perdersi s’è rafforzata in alcuni casi proprio in virtù di una consapevolezza nuova. Che poi induce ad una sfida rinnovata alle condizioni e al gusto eclettico della contemporaneità. Ed è qui che insiste il lavoro di Dusciana Bravura, una delle personalità più forti nel panorama artistico legato al mosaico d’oggi. Il suo lavoro ha sfidato continuamente la condizione dell’ossimoro, e magari anche senza volerlo; ciò che risulterebbe ancor più significativo in una contemporaneità che ha proprio nell’ossimoro una figura spesso ricorrente. L’ossimoro, nel caso di una parte cospicua del lavoro di Dusciana, di una manualità di lontanissima memoria, finalizzata, magari, ad un bestiario favolistico o mitologico di suggestione più letterariamente arcaica che da cinematografia d’oggi. E questo, alla luce di un’attualità sempre più versata alla rimozione della memoria, anche non voler scomodare, con Jung, le strutture del profondo, l’evocazione degli archetipi. Per non dire del ‘sapere manuale’, e di un ‘gusto’ e un pensiero della qualità legati appunto a questa condizione operativa. Un ‘fare’ antico riversato in una condizione moderna, anzi proprio dell’oggi. Ecco, questa nuova sfida di Dusciana, anche per le dimensioni inusuali e la complessità anche concettuale della progettazione come della realizzazione, diventa un passaggio decisivo nel suo percorso entro il mosaico, e insieme ben oltre i limiti ideativi e strutturali del mosaico, comunque lo si possa intendere e praticare.
Il progetto, detto in estrema sintesi, parte dalla selezione di un migliaio di opere d’arte da fine Ottocento ad oggi, stampate su vetro tagliato poi manualmente secondo la prassi musiva, e quindi ricomposte sulle grandi tubature in pvc di una fabbrica. Ne risulta una gigantesca installazione, un percorso quasi labirintico di immagini e luci che avvolgono il visitatore in questo inusitato contenitore. Un vasto compendio di oltre un secolo d’arte, offerto per il tramite di una sensibilità, un occhio, una dimensione musiva. Dusciana parla di ‘una fabbrica dell’arte contemporanea’, giustificata da una scelta quanto mai ampia, che annovera naturalmente opere di protagonisti storici di primissimo piano ma anche di non pochi comprimari, tuttavia utili a ricostruire una rete quanto mai fitta di rapporti, derivazioni, consonanze. E naturalmente, anche diversità, scarti, contrapposizioni, che mai come nell’ultimo secolo hanno scandito stagioni, vicende, movimenti, insomma tutta la serie degli ‘ismi’, e naturalmente dei loro contrari nel persistere delle tradizioni storiche. Fino a costituire, per dirla col Rosenberg, una ‘tradizione del nuovo’ – ancora un clamoroso ossimoro- a sua volta scavalcata durante i famosi- o famigerati, a piacere- Anniottanta, da un nuovo e più disinvolto eclettismo tendente a rimettere tutto in circolo sotto le insegne non poco ambigue e onnicomprensive del ‘postmodern’. E in effetti, ad una sommaria osservazione, i precedenti di Dusciana potevano suggerire questa categoria storico-critica per quanto di ricercatezza decorativa- ma nel senso più proprio del termine- poteva indicare il ricorso ad una perizia artigianale d’antica memoria, e una vivacità d’invenzione che apparivano quasi agli antipodi dei rigori analitici, delle pratiche ‘poveriste’, delle austerità minimaliste, dei concettualismi programmatici, protratti fino ad un’accademia internazionalmente riconosciuta. Certo, il mosaico rappresenta espressamente una condizione espressiva diametralmente opposta, e comunque quasi incompatibile con queste pur distinte linee della neoavanguardia. E verrebbe spontaneo aggiungere che la pratica del mosaico è intrinsecamente una scelta di campo inequivocabile.
Ma quest’ultimo lavoro di Dusciana a me sembra che sposti decisamente i termini della questione, e in ogni caso ne dilata i confini complicandone le prospettive. Intanto, si comprende bene come le sue non siano affatto semplicemente trasposizioni di opere note . Certo, ne viene preservata la leggibilità, la riconoscibilità, in quanto fondamentale per un ‘discorso’ sull’arte contemporanea. In un certo senso una funzione di queste immagini corrisponde a quella delle ‘riproduzioni’ di un manuale. Ma va subito aggiunto, a scanso di equivoci, che non v’è nient’altro che possa ricondursi ad una ricostruzione storiografica ad uso didattico, né a scelte o approfondimenti critici. Qui, le immagini trasposte attraverso una tecnica pur sempre musiva, anche se riveduta e corretta, per così dire, se richiamano opere e autori, ostentano con evidenza un processo di trasformazione. Che in linguaggio alchemico si potrebbe chiamare di trasmutazione. Non per nulla la stessa Dusciana vi fa riferimento, segnalando come una replica di ‘Fountain’, il mitico pissoir di Duchamp, sia posta al termine del percorso per accogliere la goccia d’oro, il simbolo dell’avvenuta trasmutazione risultante dalle mille opere qui evocate. Come a dire la quintessenza dell’arte contemporanea raccolta dall’opera che forse più d’ogni altra è diventata il simbolo più rivoluzionario, insieme sconcertante e familiare dell’arte del XX secolo. Ma s’intende bene che detta in questi termini potrebbe apparire una semplificazione perfino scontata nell’omaggio reso all’opera più universalmente nota, assieme alla Gioconda coi baffi e al ‘Grande vetro’, dell’ineffabile Duchamp. Un’opera che come il primo ready made, la ‘Ruota di bicicletta’, ma con ancor più irridente provocazione, potrebbe essere davvero eletta anche come il più spregiudicato degli ossimori. E vale a dire : l’opera forse più rappresentativa dell’arte di un secolo, o quantomeno della linea nettamente vincente delle avanguardie, che rappresenta la più radicale negazione della tradizione artistica, dell’identità, dei valori storicamente riconosciuti. Il principio dell’unicità e irripetibilità dell’opera, della sua qualità pittorica o plastica, di requisiti appunto, comparabili secondo metri di valutazione, se si vuole di gusto, a quelli di ogni altra opera d’arte. Tutto questo spazzato via come se si fosse al capolinea di una lunga storia, col paradosso che quest’ opera campeggia come uno trofeo fra tutte le altre opere raccolte in un museo come tasselli esemplari di quella storia dell’arte di cui in un certo senso si fa beffe.
S’intende che la questione si fa più complessa se solo si chiama in causa come elemento decisivo un pensiero diverso, e certo più dilatato e anticonvenzionale della creatività. ma non è questa la sede per parlarne. Quello che conta, per Dusciana è la visione complessiva di una modernità a più facce, insomma declinata secondo scelte linguistiche, ma anche ideologiche,tanto diverse da risultare in alcuni casi incompatibili pur se comunemente accolte nel grande ‘sistema’ dell’arte. Un sistema fatto di concatenazioni pressoché indissolubili fra artisti, mercato, collezionismo, critici, musei e istituzioni a vario titolo votate all’arte. Una visione per così dire ecumenica, quella di Dusciana, che proprio in questo lascia intendere la volontà di ricondurre il poliedrico universo dell’arte contemporanea alla visione in un certo senso unificante della mosaicista. Quasi a dimostrare, ve ne fosse bisogno, la compatibilità di una tecnica antica coi linguaggi contemporanei, il pensiero che li sottende, le regole del gioco che li governano, il consenso che li legittimano. La certificazione che arte è ciò che gli uomini chiamano arte, per ricorrere alla tautologia di Dino Formaggio. L’operazione di Dusciana è decisamente concettuale, ma di una concettualità che non rinuncia al fascino dei materiali, della tecnica, di un’ambientazione sorprendente per un’operazione quanto mai ‘site specific’, come s’usa dire oggi, nel ricorso ad una progettualità che ha nella citazione letterale il suo mezzo e insieme il suo fine. E lo scarto tra la trasposizione musiva tradizionale e la sequenza delle citazioni, sta evidentemente nell’elaborazione tecnica che restituisce il pensiero, la ‘ratio’ del mosaico, ad una fisionomia, a una funzione, a un destino diversi. Per certi aspetti, l’uso di immagini artistiche note richiama l’utilizzo di icone di immediata riconoscibilità proprio della Pop art, con l’immancabile star Andy Warhol in primo piano. Queste icone dell’arte rielaborate da Dusciana hanno ormai assunto, a loro volta, il ruolo di immagini di massa, ecco ‘popolari’, al pari dei feticci del consumismo e del teatro dei mass media celebrati appunto dalla Pop. Ma altro è l’intendimento, altra la loro trasposizione tecnica e la loro funzione in un insieme che evoca una visione complessiva e comunque unitaria della storia della modernità. Dove si incontrano, in un percorso interamente costruito su strutture tecnologiche in disuso- giusto di un’archeologia industriale- nomi i più diversi della storia artistica di oltre un secolo: da una figura centrale della performance come Marina Abramovic, ad un pittore tra i più pittori quale Bonnard; da un protagonista del minimalismo come Andre, ad un eccentrico simbolo della ridondanza come Dalì; da un ‘poverista come Merz ad un ‘classico’ e metafisico come de Chirico, per dire succintamente dell’eterogeneità delle figure che ricostruiscono innumerevoli brani di memorie artistiche ampiamente storicizzate, da van Gogh a Ensor,da Picasso a Modigliani, insieme ad altrettanti riferimenti ad un’attualità ancora attiva come un Kiefer, un Quinn, un Cattelan, per fare, quasi a caso, solo pochi esempi. E con l’avvertenza che non si tratta tanto di una scelta esemplare, pur sempre soggettiva, quanto di una sequenza quasi labirintica entro cui muoversi a piacere, fino all’uscita dichiaratamente alchemica che condensa tutto raccoglie restituendo un’ulteriore possibilità di lettura. E dunque, di percorsi percettivi, sensoriali, immaginativi, e naturalmente di rinnovate interrogazioni sull’arte.
E si dovrebbe tornare a questo punto sulla premessa del ruolo del mosaico, anzi di un pensiero musivo, all’interno di una vicenda così complessa e multiforme da rendere l’operazione di Dusciana quasi una sfida tanto ardua quanto avvincente. Se il rapporto fra il mosaico e l’arte contemporanea è apparso, come si è detto, tra più problematici, in questa quasi stordente operazione ambientale si celebra anche una suggestiva e imprevedibile figura del nostro tempo: l’ossimoro.
Claudio Spadoni